Emergenza suicidi, lo psicoterapeuta: “Non è vergogna chiedere aiuto”

Colpisce la tragica sequenza di suicidi a Siracusa. Nel giro di poche settimane, quattro casi: un poliziotto quarantenne, un giudice sessantenne, una ragazza poco più che trentenne e ancora in agente di polizia 38enne. “Certo, sorprende la concentrazione di episodi in un periodo molto ristretto”, dice il direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asp di Siracusa, Roberto Cafiso.
“Siamo diventati una società di ‘masticatori’, rulli compressori che devono andare sempre avanti, in mezzo a diversi fattori stressogeni. Ci condizionano e ci trasformiamo in persone sempre meno empatiche, spesso proprio verso chi ci sta più vicino. Ma non serve attribuirsi responsabilità dopo un suicidio: è una scelta personale che pesca in condizioni non sempre facili da intercettare. Anche perchè gli strumenti per individuare i campanelli d’allarme non sono appannaggio di tutti”, analizza lo psicoterapeuta pensando a chi deve convivere con un dolore immane.
“Colpa della pandemia? E’ più corretto parlare di una sommatoria di fattori: alla base di una scelta così estrema e senza ritorno, c’è una componente individuale determinante. La pandemia c’è stata per tutti, ma non tutti compiono gesti estremi”, aggiunge Cafiso.
Ma esistono dei segnali che possono permettere di non lasciare solo chi vive una fase complessa, durante la quale non vede vie d’uscita alla condizione personale? “In linea generale, si: momenti di assenza della persona, forte sconforto, discorsi o accenni di frasi che aprono ad uno scenario suicidario con espressioni del tipo ‘a che serve vivere’ oppure ‘il mondo fa schifo’. Frasi sentinella ma oggi anche da linguaggio comune, slang. E questo significa anche che larga fetta dell’umanità è scontenta delle proprie condizioni di vita. Solo che così diventa difficile distinguere una battuta da un vero tarlo che rode i pensieri”.
Pensieri di cui – suggerisce Roberto Cafiso – è il caso di parlare con un amico, una conoscente, un affetto. Senza vergogna. Partendo anche dalla risposta ad un semplice ma sempre utile “come stai?”. Un appello, una richiesta di aiuto anche forte e drammatica, può permettere di salvarsi. “Non si può avere oggi la pretesa che siano gli altri a capirci, anche nelle sfumature nere. Vi prego, parlate, parlatene. Non necessariamente con uno specialista: un amico, un affetto valgono”, l’appello del direttore del Dipartimento di Salute Mentale. “Questa è un’era in cui la vita non ha lo stesso valore assoluto di qualche lustro fa. Per gli anziani, per i cattolici il valore della vita è sacro. Un depresso, invece, oggi preferisce scommettere su quello che c’è dopo, rispetto all’attuale. Ma non è vero che non ci sono soluzioni. Esternate le considerazioni che tenete per voi. Parlate, vedrete che c’è una via d’uscita. Pensate a quanti sono stati salvati proprio perchè hanno pubblicato un appello disperato sui social. Una telefonata all’amico, non isolatevi. Non c’è vergogna nel lanciare un grido d’allarme personale”.